Un venerdì sera, all’ombra del campanile di Badia, ci siamo messi “a veglia” per ascoltare e narrarci le storie e le leggende del nostro territorio. Ci ha accompagnati il professor Paolo Fantozzi che in questi ultimi anni ha raccolto un enorme patrimonio di racconti legati alle tradizioni della nostra terra. Lo abbiamo, allora, intervistato. È una persona estremamente interessante e ricca di sapienza popolare. Inanzitutto vi diciamo chi è:
E’ insegnante di lingua e letteratura inglese al Liceo Scientifico “A. Vallisneri” di Lucca e si occupa di letteratura inglese e americana, di didattica della lingua inglese, di folklore, di storia locale e pittura ad acquerello. Ha pubblicato nel 1994 Paure e Spaure, le leggende della provincia di Lucca, nel 1999 Le leggende delle Alpi Apuane (ed. Le Lettere, Firenze), nel 2000 la raccolta di racconti Le Voci della Memoria, nel 2001 Storie e leggende della montagna lucchese (ed Le Lettere, Firenze), nel 2003 Storie e leggende delle colline lucchesi (ed Le Lettere, Firenze), nel 2005 Storie e leggende della Versilia (ed Le Lettere, Firenze), nel 2007 Storie e leggende lungo il Serchio (ed Le Lettere, Firenze). Nel 2013 è uscito il volume Racconti e Tradizioni Popolari delle Alpi Apuane (Le Lettere, Firenze). Nel 2016 ha pubblicato Rupi e boschi incantati – Le fiabe delle Alpi Apuane (Apice editore 2016). Ha inoltre curato l’antologia di racconti di scrittrici inglesi e americane Short Stories by Women Writers (ed. Loescher Torino 2007).
- Quando è nata la sua passione per il mondo delle storie?
Il mio primo incontro con le fiabe e le leggende risale agli anni felici quando mamma mi teneva sulle ginocchia e nei lunghi pomeriggi d’estate mi raccontava le storie della sua terra: la Maremma bruciata dal sole, spazzata dai venti salati, con il mare che si apre verso spazi infiniti. Lo stupore di fronte al fantastico è una delle prime forme di felicità che soltanto la parola e il suo intercalare nella narrazione riescono a suscitare. Il magico potere di immaginare e vedere oltre quello che fisicamente ci è possibile è una delle sensazioni che nella vita non vorremmo mai né perdere né dimenticare. Ho provato proprio questo nell’ascoltare da piccolo la storia della Nèna che veniva portata via dal fidanzato fantasma. Mamma me la raccontava cantandola: “O Nèna, Nèna, Nèna, montami sulle spalle, ti porterò a Trapalle, ti porterò a morir”. Oppure la storia del contadino che nel buio della Maremma sente dei passi dietro di sé e si accorge che è il rumore di zoccoli; sente sbuffare come se ci fosse un animale, poi girandosi vede un paio di cornoni e pensa che il diavolo lo stia seguendo. Ma è soltanto una vacca che traina un barroccio che si è avvicinato sulla strada.
Poi ci fu un giorno d’estate del 1977. Mi trovavo in Cornovaglia, a Tintagel dove si trovano le rovine del castello di Re Artù. Un uomo anziano mi disse di non passare da un sentiero perché avrei disturbato i folletti. Incuriosito mi avvicinai e da questo signore ascoltai leggende su fate, folletti, tesori nascosti, santi eremiti e animali fantastici. Mi domandai se queste storie fossero state presenti anche nella mia terra e mi misi a consultare vecchie pubblicazioni, riviste di folklore e studi fatti sull’argomento a cavallo fra Otto e Novecento. Conobbi il prof. Del Beccaro e il prof. Venturelli che avevano fatto ricerche sull’argomento e mi dettero le prime indicazioni di metodo. Più tardi conobbi anche Gabrielli Rosi che aveva anche lui raccolto materiale folklorico nella nostra provincia. Però, se devo essere sincero, l’ispirazione più forte l’ho avuta leggendo molta letteratura inglese, soprattutto Walter Scott, W. B. Yeats, Washington Irving e i lavori sul folklore di Katharine Briggs. Infine la passione per il camminare che mi ha portato sulle vette Apuane, sull’Appennino, nei paesi sparsi qua e là nella campagna a incontrare pastori, taglialegna, cavatori, contadini, scalpellini, operai, casalinghe dai quali ho imparato tante lezioni di vita come il valore della dignità, del coraggio e della fiducia, oltre alle leggende.
Ho amato queste narrazioni popolari perché oltre a ritrovare un legame diretto con l’infanzia e il fantastico, mi è stato possibile recuperare l’immagine di un mondo primitivo profondamente radicato in un contesto di comunità che parla, racconta, condivide e sogna.
- Perché, secondo lei, l’essere umano ha bisogno delle storie e delle leggende?
L’uomo continua a raccontare storie e leggende da tempo immemorabile. Se ne trovano in tutto il mondo e i temi e motivi che le caratterizzano, le rendono universali e fuori dal tempo. Rispecchiano culture e popoli diversi, ma essenzialmente sono tutte riconducibili a situazioni ricorrenti. Ogni volta che qualcuno ripete “C’era una volta…” si apre un mondo fantastico che assomiglia ad un sogno perché si passa improvvisamente da scena a scena e ci si sposta rapidamente in un tempo e in uno spazio dove tutto può accadere. Ormai l’uomo ha dato una spiegazione a molti fatti e fenomeni che una volta apparivano misteriosi e strani; si sorride a pensare alle antiche leggende che spiegavano fatti prodigiosi, miracolosi e sovrannaturali. Il rapido avanzamento dei mezzi di comunicazione ha cancellato in buona parte il nostro patrimonio favolistico e leggendario, ma attraverso questa forma di letteratura popolare orale possiamo rivisitare ambienti e spaccati di vita del passato: una vita semplice, spesso dura e faticosa, condizionata talvolta da una natura ostile. Ciò che è raccontato, ha un punto di partenza nella vita vissuta; questa considerazione è importante, perché ci mette in grado di capire che la cultura dei nostri nonni era fatta di simboli, di superstizioni, di paure che si sono comunque originate dalla concretezza delle cose quotidiane, dal duro lavoro e dalla fatica per la sopravvivenza e trovavano il loro naturale sbocco e realizzazione nel contesto della veglia, della scartocciatura del granturco, delle lunghe serate intorno ad una carbonaia o al lento fuoco di un metato, dove la comunità rurale si riuniva per dialogare e raccontare. Attorno alla figura del novellatore, le persone stavano ad ascoltare racconti e leggende. Attraverso la voce e la memoria, venivano comunicate le proprie esperienze, la propria interpretazione della realtà, la precisa identità culturale e il mondo dei valori in cui si credeva.
Riscoprire il nostro patrimonio culturale legato alla fantasia ci aiuta a penetrare e comprendere una parte del contesto sociale al quale è appartenuta la generazione dei nostri padri. È necessario oggi compiere un viaggio nella tradizione popolare per recuperare e far conoscere le fiabe, i proverbi, le tradizioni e i ricordi della nostra terra a tutte quelle persone che hanno perduto un sano rapporto con la parola e con l’arte di narrare e di saper ascoltare.
- Oggi non si racconta più intorno al fuoco. Soprattutto in internet si assiste a un proliferare di storie. La gente si narra e a volte diffonde anche false notizie. Che cosa nasconde, in realtà, questo desiderio? Perché abbiamo bisogno di crederci?
Sono cambiati i contesti, ma l’uomo di oggi ha ancora bisogno di sognare e avere paura. Purtroppo questo non avviene più all’interno di una comunità, ma a livello individuale, magari di fronte ad un libro – quando va bene – più spesso con un videogioco sullo smartphone. Il risultato è che la parola muore, si indebolisce; appassiscono le espressioni dialettali, le parole tipiche di un parlare locale, scompaiono perché non vengono più trasmesse e vengono dimenticate. Il fascino della veglia era quello di ascoltare la parola degli anziani e così recuperare la memoria legata ad un luogo, ad una strada, ad un santo, ad una persona qualsiasi che ha lavorato sulle nostre colline. Oggi, il rapido avanzamento dei mezzi di comunicazione e di informazione ha cancellato in buona parte il nostro patrimonio favolistico e leggendario; non tutto però è andato perduto. Ecco perché è necessario compiere un viaggio nel passato per recuperare e far conoscere le leggende, i proverbi, le tradizioni e i ricordi della nostra terra a tutte quelle persone che non sanno che dietro a una montagna, a una strada, a un antico paese si nasconde una storia.
- Qual è secondo lei il filo rosso che lega tutte le narrazioni che ha raccolto?
Tutto il patrimonio leggendario di ogni popolo e di ogni paese si sviluppa attraverso una rete di temi e motivi che si intrecciano, si sviluppano, si ricompongono per poi trasformarsi di nuovo e ricongiungersi con altri temi e motivi. Ecco perché una leggenda raccolta sui Monti Pisani può assomigliare ad una raccolta in Garfagnana o nella Maremma. Questo vale anche per le fiabe e per ogni racconto orale. Secondo Jung, le leggende e le fiabe sono “l’espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo e rappresentano dei modelli (archetipi) in forma semplice e concisa”. Ciò significa che la storia raccontata in una leggenda o in una fiaba è qualcosa di molto importante: è la storia della psiche che, attraverso una serie di eventi, a volte pieni di rischi e pericoli, raggiunge un traguardo, una meta. La fiaba può quindi essere considerata come una metafora della storia della vita della psiche perché narra le vicende, i tormenti, le prove attraverso le quali essa giunge alla sua piena maturazione, liberandosi dai complessi che l’avvolgono e che quindi la mettono in difficoltà. In questo modo la psiche, grazie alla presenza degli archetipi si irrobustisce perché essi, invece di distruggerla, finiscono con il fortificarla, riportandola a vita autentica. Ogni cosa può funzionare da simbolo, ma alcuni simboli hanno una ricorrenza universale, e sono appunto questi che Jung chiama archetipi e questi si trasmettono ereditariamente e rappresentano una sorta di memoria dell’umanità, proprio come se si andasse a formare un inconscio collettivo presente in tutti i popoli, senza alcuna distinzione di luogo e di tempo. Ne deriva che gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti e nelle fiabe e quindi diventano espressioni dell’inconscio collettivo. Non a caso Freud affermò che le forme archetipiche dei desideri istintuali più nascosti di ogni essere umano si ripropongono nei sogni. La fiaba può quindi trasformare tutti questi desideri istintivi in insegnamenti per la crescita e l’emancipazione del bambino, svolgendo quindi una funzione salutare per lo sviluppo della persona. Ecco perché nelle leggende, come nelle fiabe, si incontrano esseri soprannaturali come le fate e i folletti, o montagne insormontabili, o favolosi tesori o oggetti magici
- Questi racconti della nostra terra rischiano di venir dimenticati. Oltre alla sua importante opera di raccolta, quale potrebbe essere la strada da percorrere per non perdere questo fondamentale patrimonio?
Penso che la prima cosa da fare sia raccontare e fare conoscere sia oralmente che per scritto questo aspetto della nostra identità culturale al quale vorrei aggiungere i canti popolari, i canti religiosi, le preghiere, i proverbi, le filastrocche, i rispetti, gli indovinelli, gli scongiuri e così via. Si possono usare i moderni mezzi di comunicazione, ma niente va a sostituire la voce del narratore, il contesto di silenzio e attenzione dove la parola sedimenta lentamente nella mente di chi ascolta dando vita al processo di immaginazione fondamentale per “vedere” e ricordare. Le attività che molte insegnanti hanno promosso soprattutto nelle scuole elementari e superiori di primo grado sono fondamentali e preziosissime; i circoli culturali che promuovono iniziative per promuovere e diffondere la cultura locale e la creazione di archivi dove vengono depositate ricerche, trascrizioni di interviste, nastri registrati, quaderni e quant’altro possa rappresentare qualcosa degno di essere documentato. Ce ne sono già alcune nella nostra provincia.
- Ci racconti una storia che più di altre le è rimasta nel cuore…
La scelta è molto difficile, ma visto che è stato appena presentato l’ultima mia raccolta di narrativa popolare orale “Storie e Leggende dei Monti Pisani” ne sceglierò una da questo testo. Si intitola “La leggenda del cavaliere penitente”.
“Questa è una storia avvenuta tanto e tanto tempo fa. E’ tanto lontana nel tempo che ormai nessuno la ricorda più, ma da queste parti, una volta, si usava raccontare di un giovane cavaliere che apparteneva ad una famiglia ricca e potente del territorio. Passava le sue giornate andando a caccia e seminando zizzania fra un paese e l’altro, tanto per far vedere quanto fosse potente e spavaldo. In quanto alla religione poi, non c’era modo di farlo andare in chiesa e fu addirittura richiamato dal Vescovo in persona per certi fatterelli che aveva combinato in una Pieve. Il sant’uomo gli dette dei buoni consigli, ma furono soltanto parole gettate al vento. E non parliamo poi di quello che combinava alle giovani ragazze in età da marito. Tutte lo temevano e fuggivano solo a sentirlo nominare. Il suo nome era Ludovico e come tanti signorotti di quei tempi, faceva solo di testa sua e, in particolare, gli piaceva dimostrare a sé stesso e agli altri quanto fosse bravo e coraggioso.
Un giorno sellò il cavallo e salì nei boschi del Monte Pisano. All’improvviso un daino tutto bianco gli si parò davanti e Ludovico fu subito pronto con la sua lancia per infilzarlo, ma l’animale fuggì veloce nella boscaglia. Allora Ludovico, ferito nel suo orgoglio di cacciatore, lo seguì e si perse in quei folti boschi dove i pini svettavano verso il cielo e pruni e rovi crescevano rigogliosi nelle forre dove sgorgavano copiose sorgenti. Intanto, il sole stava tramontando e Ludovico si rese conto che era ormai tardi per ritrovare la via di casa. Allora, con molta fatica salì sulla montagna deciso a trascorrervi la notte, ma i rintocchi leggeri di una campana, che un’eremita suonava ogni sera lo convinsero a scendere per trascorrere la notte sotto un tetto. Cominciò a piovere forte ed era ormai buio pesto quando Ludovico bussò alla porta di quell’umile capanna di pietra. Gli venne aperto da un uomo ancora giovane che viveva in solitudine e preghiera in quell’angolo della montagna e, nel vedere Ludovico fradicio e infreddolito, lo invitò ad entrare. Il pio eremita accese un bel fuoco e Ludovico si tolse i suoi abiti da caccia, tutti ricamati e intarsiati con fili d’oro e li mise ad asciugare. Poi, indossò una vecchia tunica e nel silenzio rotto soltanto dallo scrosciare della pioggia si sedette rassegnato. L’eremita gli offrì una ciotola di latte e poi cominciò a chiedergli come fosse capitato lì. Ludovico sentì la rabbia e il fuoco devastarlo dentro. Lui, uno dei signorotti più potenti del territorio, seduto davanti al fuoco, con un povero pazzo eremita. Si alzò di scatto per andarsene, ma l’infuriare della bufera lo trattenne. Allora si mise di nuovo a sedere e ordinò al frate di non parlargli. “Se non vuoi che ti parli, allora pregherò per te” e si mise accanto lui davanti al fuoco a pregare silenziosamente. E lo fece per tutta la notte, mentre Ludovico sentiva le sue viscere contorcersi dentro di sé. L’insofferenza e la smania lo paralizzarono e trascorse la notte in preda a dolori atroci come se le fiamme del focolare lo stessero divorando. Sul fare del mattino la pioggia cessò e l’eremita chiese a Ludovico se poteva uscire a prendere un po’ d’acqua per lavarsi. Gli porse un secchiello di legno e gli indicò la sorgente. Il cavaliere uscì, senza nemmeno rendersi conto di quello che doveva fare, si sentiva spossato e confuso, ma raggiunse la sorgente e, nonostante ripetuti tentativi, non riuscì nemmeno a farci entrare una sola goccia d’acqua. “Come”, gli chiese l’eremita al suo rientro nella capanna, “non hai portato nemmeno una goccia d’acqua?” Ludovico si sentì umiliato e ancora più confuso. Non sapeva che cosa dire e sentiva il sangue bollire di rabbia. Avrebbe voluto scappare via, ma una forza superiore a lui lo costringeva a rimanere lì. Prese di nuovo il secchio e tornò alla sorgente. Anche questa volta nemmeno una goccia d’acqua rimase nel secchio. Pareva proprio che quel legno avesse dei grossi buchi invisibili. Giurò che prima o poi sarebbe riuscito a riempire quel secchio, ma dovette tornare alla capanna dell’eremita a mani vuote. “Vedi”, gli disse il saggio frate, “tutto questo succede perché il tuo orgoglio non permette a Dio di far scendere la sua grazia su di te. Ripensa alla tua vita e convertiti”.
Ludovico per molti giorni vagò di notte per boschi, paludi, strade secondarie senza fermarsi mai. Era ormai ridotto ad un animale selvatico, quando un giorno si unì ad un gruppo di pellegrini e si diresse con loro verso Roma. Per un anno attraversò città, campagne, fiumi e paludi. Dormì nelle stalle, si umiliò a chiedere un po’ di pane secco per i suoi denti, cercava di bere usando una piccola tazza di legno, ma ad ogni sorgente nemmeno una goccia di liquido vi rimaneva dentro.
Una notte d’inverno, un pellegrino bussò alla porta dell’eremita. Era un giovane uomo, logorato dalla fame, con una tunica sudicia e il volto sofferente per la fatica e le tante privazioni subite. L’eremita lo riconobbe e lo invitò ad entrare. Accese il fuoco e gli portò una ciotola di latte caldo con del pane fresco. Poi gli tolse la tunica sporca, gli lavò i piedi e lo vesti con dei soffici panni bianchi ricamati d’oro: la sontuosa veste che quella notte lontana Ludovico aveva lasciato nella capanna dell’eremita. In un angolo della capanna il frate cominciò a pregare, proprio come quella notte. Ludovico voleva raccontare per filo e per segno quello che aveva vissuto in quei lunghi mesi, ma rimase in silenzio e si commosse nel vedere quanto la sua vita era cambiata. Le sue lacrime scendevano giù copiose e andavano a colmare la ciotola di legno che teneva in grembo nella quale aveva bevuto il latte. Allora l’eremita gli disse: “andiamo insieme alla fonte a prendere l’acqua”. Uscirono nella notte silenziosa e fredda. Le stelle in cielo indicarono la via e davanti alla fonte l’eremita disse: “va, riempi il secchio”. Questa volta l’acqua salì fino all’orlo del recipiente. Dio l’aveva perdonato.
Sulla pietra dove Ludovico, il cavaliere pentito, aveva appoggiato quella notte i piedi per prendere l’acqua alla fonte, si possono vedere ancora oggi le sue impronte che il tempo a distanza di tanti anni non ha mai potuto cancellare.”
L’ultimo lavoro del Fantozzi è Storie e leggende dei Monti Pisani (Apice editore 2018).