Lorenzo Celli
Le impronte del mistero
Nonostante la campanella abbia sempre lo stesso suono, al mio orecchio non arriva mai uguale. Quel giorno mi aveva ricordato la quinta sinfonia di Beethoven, mentre un mistero irrisolto mi ronzava in testa e ormai lo ritenevo una causa persa. Come era possibile? Come potevano trovarsi sul soffitto della mia classe delle impronte di piedi?
Erano comparse come per magia il giorno prima. Ero stato l’unico ad accorgermene, e io sono l’ultimo a arrivare. A ricreazione si era accesa l’indagine: avevo interrogato tutti i miei compagni e alcuni professori. Avevo pure misurato il numero delle impronte con un righello, ma i possibili corrispondenti avevano un alibi all’apparenza perfetto. Gli unici con il 41 di piede erano Michele, Sandro e Amelia.
Michele diceva di essere entrato subito prima di me, e i compagni confermavano;
Sandro quel giorno era malato, come appurato dall’autorizzazione firmata dai suoi genitori; Amelia, dal canto suo, conosceva perfettamente l’impronta delle sue scarpe, e mi mostrava che erano completamente diverse.
Tutti e tre avevano però un movente: Michele odiava la scuola, Sandro era uno scapestrato e non mancava mai di fare scherzi, mentre Amelia era sempre alla ricerca di attenzioni.
Chi poteva essere stato?
Ero intenzionato a scoprirlo, quindi avevo deciso di rimanere nascosto a scuola, sicuro che il “colpevole” sarebbe tornato. E proprio quando stavo per rinunciare, qualcuno entrava nell’aula.
Nessuno dei sospettati, bensì il bidello, venuto per ripulire le impronte in tutta fretta. Sorpreso nel vedermi lì a quell’ora, mi aveva chiesto che ci facevo, e dopo un attimo in silenzio, come se fosse imbarazzato, si era deciso a raccontarmi tutto: l’orario di lavoro lo aveva costretto a saltare i suoi esercizi pomeridiani, quindi aveva preso l’abitudine di farli ogni volta che finiva di pulire un’aula, così, per sfida personale. Tra questi esercizi c’erano pure i piegamenti in verticale che aveva fatto proprio dopo aver pulito la mia classe. Li aveva eseguiti, però, stando su un banco e sfiorando il soffitto con i piedi. Per la penombra non si era accorto delle tracce.
In effetti il bidello aveva un fisico davvero statuario e il suo orario di lavoro era sicuramente poco ortodosso. Dunque, il caso era chiuso.
Il giorno dopo la campanella mi aveva ricordato un’altra sinfonia di Beethoven: la nona.