Michele Cecchini è nato a Lucca nel 1972. Vive a Livorno e insegna Lettere in una scuola superiore. Con la casa editrice Erasmo ha pubblicato nel 2010 il suo primo romanzo, Dall’aprile a shantih, che ha aperto a Praga una serie di presentazioni di autori esordienti organizzata dalla Società Dante Alighieri. Nel 2015 ha pubblicato il suo secondo romanzo, Per il bene che ti voglio: la storia di un emigrante garfagnino, un maggiante, che alla fine degli anni ’30 si trasferisce a San Francisco in cerca di fortuna nel circuito dei teatri off-Broadway. Presentato in molte città italiane, in Canada e negli Stati Uniti, è stato “Libro del Giorno” alla trasmissione Fahrenheit di Rai RadioTre.
- Se ti chiedessi di parlare di cosa provi quando scrivi, dei tuoi conflitti, delle tue paure, cosa risponderesti?
Non bisogna mitizzare l’azione della scrittura. Credo sia una cosa molto simile all’artigianato: richiede pazienza e, soprattutto, abitudine alla solitudine. E poi scrivere è molto faticoso. Ogni pagina, anche (anzi, direi: soprattutto) quella più semplice, lineare, “discorsiva” per intendersi, è il frutto di una miriade di riscritture, riletture, rifacimenti. La semplicità, insomma, è una conquista, un punto di arrivo di un percorso parecchio lungo. Per rispondere più nel dettaglio alla tua domanda, personalmente tengo alla larga il testo dalle mie angosce, dai miei conflitti. Se ci finiscono, succede involontariamente. In genere non ci sono elementi autobiografici in quello che scrivo perché non ritengo la mia vita così interessante da finire in un romanzo, da interessare un lettore. Ecco, questa è una cosa che mi sta a cuore: quando si pubblica un libro, bisogna pensare che chi legge dedica all’autore tempo ed energie. Per me dunque è una questione, diciamo, etica: scrivere al meglio delle proprie possibilità, con una dedizione totale, e soprattutto quando davvero si ha qualcosa da dire. Il che non significa assolutamente tenere presente il lettore mentre si scrive – io, almeno, non lo faccio. Significa non considerare la scrittura uno “sfogatoio” o, peggio, un modo per esprimere il proprio narcisismo.
- Quando hai cominciato a scrivere? Che cosa ti ha spinto a farlo?
Non saprei individuare un momento “a partire dal quale”. Si tratta di un’esigenza che mi ha sempre accompagnato e piano piano è andata a definirsi nella forma che ritengo per me più congeniale, quella del romanzo. Per il resto, scrivo per un’infinità di motivi. Perché ne sento il bisogno, per recuperare eventi, persone, parole, sensazioni ormai dimenticate, per restituire uno sguardo, per mantenere viva la sensibilità, per esercitare il diritto alla complessità, ai chiaroscuri, alle contraddizioni contro gli eccessi di semplificazione. La scrittura apre spazi, suggerisce sguardi e il lettore si intrufola, ricavandone quello che cerca. Ma queste sono solo alcune delle infinite ragioni, eh.
- Scrivere, per te, è un modo per…
Per me scrivere non è un “modo per”. La scrittura non è uno strumento ma vale di per sé. E lo strumento, quando riflette su se stesso, è meraviglioso. Del resto ogni libro probabilmente fornisce al lettore un’idea del mondo e un’idea della scrittura. Ma se proprio devo indicare un obiettivo, direi che la scrittura permette di raccontare delle storie. E, attraverso le storie, chi scrive e chi legge cercano entrambi un qualche contenuto di verità.
- Nello scrivere hai un approccio più schematico (es. utilizzo di scalette da sviluppare) o più istintivo (scrittura di getto)?
Difficile, anzi impossibile rispondere così, in astratto. Dipende dalle esigenze del momento, soprattutto dal contenuto. Persino la compilazione della lista della spesa dipende dalle diverse esigenze: il frigo vuoto? una cena imminente? un viaggio da affrontare? Come lo stile, anche la modalità della scrittura deve sapere adeguarsi. Posso dire che, per scrivere, io mi chiudo in biblioteca. Entro nella mia bolla e ci rimango finché non ho finito.
- Qual è il romanzo che ha “rivoluzionato” la tua vita conducendoti alla scrittura?
Impossibile indicarne uno. Ce ne sono tanti ovviamente, e hanno contato in modo diverso anche per le diverse fasi della vita in cui ho affrontato determinate letture. Però non sono un divoratore di libri. Sono piuttosto selettivo e molto lento. Mentre scrivo, evito di leggere. Forse per il mestiere che faccio, ho la fortuna di confrontarmi costantemente con i classici. Leggere i classici ci porta immediatamente al cuore della scrittura, ai suoi meccanismi ultimi, alla sua essenza. Penso a Tasso, per dirne uno. Ecco, leggere Tasso fa proprio bene, è come una medicina, un toccasana per la propria sensibilità, per affinare il proprio sguardo sulle cose. In ogni caso credo che, quanto i romanzi, abbiano contato e contino anche altre forme di espressione artistica: la poesia, il cinema, la pittura, la musica, per dire. Tutte queste forme offrono spunti e sensazioni che, più o meno inconsapevolmente, aiutano a “convergere” verso il testo che si sta scrivendo.
- Che cosa consiglieresti agli aspiranti scrittori? Cosa, invece, suggeriresti di evitare?
Suggerisco di scrivere, di scrivere tanto, di confrontarsi costantemente con questo strumento perché solo così lo si può padroneggiare. Il resto è istinto, è gusto, è sensibilità, è sguardo. Come dicevo prima, la scrittura di un romanzo è un esercizio di pazienza che non è adatto a chi ha fretta di vedere i risultati. Solo quando si è arrivati a qualcosa che si ritiene decente, si può sottoporlo a qualcuno di cui ci si fida, per avere un riscontro. Ma è bene farlo con moderazione, perché c’è il rischio di essere molesti.
- Quali sono gli ingredienti perfetti per un buon romanzo?
Non ce ne sono in astratto. La cosa più complicata, secondo me, è riuscire a tenere tutti i fili, a percorrere tutti i sentieri che si aprono, a mantenere inalterata la visione d’insieme, in modo che ogni elemento abbia un senso, sia funzionale e la sua presenza sia giustificata. Ogni parte, insomma, deve contribuire all’insieme. Scrivere un romanzo è ricreare un mondo in cui possibilmente, alla fine, “tutto torni”. Ma per arrivare a questo la strada è davvero molto molto lunga, perché il romanzo ha una mole consistente, è una struttura complessa.
- Hai nuovi progetti in vista? Stai scrivendo un nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
Sì, ovviamente sto scrivendo. Impossibile per me stare a lungo senza. Sto lavorando al mio terzo romanzo, una storia di quartiere ambientata nell’Italia degli anni ’80. Nel frattempo ho avuto modo di confrontarmi anche con altre attività e forme di scrittura e sono molto contento, perché credo che siano state esperienze formative, che aiutano ad affinare i propri strumenti e da cui c’è molto da imparare. Qualche anno fa ho curato una trasmissione radiofonica, Aperte Virgolette, che ha avuto come coautore e ospite fisso Ettore Borzacchini. Alla fine dello scorso anno è uscito il nuovo album di Bobo Rondelli, Anime Storte, al quale ho collaborato ai testi delle canzoni. Prossimamente è prevista l’uscita del nuovo lavoro della band degli “Stato Brado” e anche qui ho dato un contributo ai testi. La scorsa estate è andato in giro un monologo teatrale che ho scritto, Pizzicotti, interpretato dall’attrice Nicoletta La Terra, che racconta una vicenda realmente accaduta all’inizio dell’Ottocento a Livorno e che ha per protagonista una ragazzina.